Paolo Volponi direttore del personale della Olivetti

Una storia antica ma ancora attuale che parla del ruolo importante che le Direzioni HR possono avere nell’innovazione tecnologico-organizzativa in Italia.

Tratto da: https://www.nelfuturo.com/Le-tre-professioni-di-Paolo-Volponi.

Le tre professioni di Paolo Volponi: il ruolo della Direzione del Personale Olivetti nella grande trasformazione dalla meccanica all’elettronica

di Federico Butera

Paolo Volponi ha fatto tre professioni fra loro interconnesse: il romanziere, il dirigente industriale, il politico. Le pagine che seguono si concentrano sul suo ruolo come capo del personale della Olivetti, una esperienza tuttora di esempio sull’innovazione d’impresa che metta davvero le persone al centro.

Paolo Volponi è stato il mio capo quando ho lavorato in Olivetti a Ivrea. Anzi, dopo la nascita dello stabilimento di Pozzuoli e dopo la pubblicazione del suo Memoriale, gli scrissi da Palermo per dirgli che stavo per fare il concorso della magistratura, pensavo che senza portare in Sicilia lavoro di qualità non si sarebbe potuto sconfiggere la mafia, che avrei avuto piacere di fare sei mesi a Ivrea per vedere come si fa: dopo 15 giorni mi fece chiamare a Roma e mi fu proposta una assunzione, che accettai pensando di tornare presto in Sicilia. Invece restai a Ivrea dal 1962 al 1973 prima alla gestione del personale, poi – proprio su “imposizione” di Paolo Volponi – diventando il responsabile della selezione dei laureati assumendo in un anno e mezzo 420 neolaureati e con esperienza, e infine sostituendo Luciano Gallino alla direzione del Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione, dove ho seguito il programma di nascita delle isole di montaggio.

Maria Laura Ercolani mi ha chiesto informazioni di prima mano che io avevo sul ruolo e le attività di Paolo Volponi come Direttore dei Servizi Sociali e poi del Personale. E poi mi ha chiesto di scrivere questa breve nota introduttiva al suo bel libro. Cosa a cui ho aderito con piacere, poiché Paolo Volponi è stata una figura rilevante nella mia vita. Non un amico (ero troppo giovane e non ero un intellettuale), non un vero capo (indicava le direzioni ma non dava ordini e non entrava nei dettagli), ma una figura di riferimento per me come peraltro lo è stato per tante persone citate e non citate nel libro. Ricordo un incontro ruvido quando, commentando il Memoriale, gli dissi quello che pensavo sul suo ruolo attuale e futuro, che Maria Laura oggi descrive in questo libro e lui ebbe un cortese moto di insofferenza: la complessità del suo ruolo e delle sue sfide le viveva, le raccontava nei suoi libri complessi come la sua personalità ma non aveva voglia di chiarirle e discuterle e soprattutto con un ragazzino.

Paolo Volponi è stato un grandissimo poeta, autore fra l’altro della memorabile raccolta di poesie Le porte dell’Appennino del 1960, premiato con il premio Viareggio. E’ stato un grande, fecondo e controverso romanziere, con il suo libro a mio avviso più bello Memoriale del 1962 e con molti altri fra cui i due che ottennero il premio Strega, La macchina mondiale del 1965 e La strada per Roma, del 1991. La sua passione civile e politica è alla base dei suoi romanzi, mai però didascalici, mai portatori di tesi preconfezionate e di proclami. Prima di fede repubblicana, poi di fede comunista, fu senatore indipendente del Pci e successivamente deputato di Rifondazione Comunista. Volponi frequentò gli ambienti letterari e intellettuali romani e milanesi .

I critici letterari che molto hanno scritto di lui sanno bene che lavorò alla Olivetti, alla Fiat, alla Rai, alla Finarte: ma l’immagine corrente è che queste furono attività fatte per assicurargli le risorse per la sua attività di poeta e romanziere e per la sua passione di collezionista di pittori del ‘600. Nulla di più sbagliato.

Il libro di Maria Laura Ercolani, documentatissimo e appassionato, ricostruisce per la prima volta i fatti e le sfide delle tre professioni svolte nel tempo da Paolo Volponi, professioni legate ricorsivamente fra loro, che si arricchivano e si tormentavano reciprocamente, offrendo così una vivida rappresentazione della figura professionale e umana complessiva di Paolo Volponi.

La prima è quella di un poeta e romanziere che attraverso un gran numero di personaggi racconta e sublima se stesso, come figura paradigmatica di chi, strappato dalla civiltà delle aree interne italiane di città nobili come Urbino e delle campagne, entra in contatto con il mondo industriale delle fabbriche, delle grandi città, dei grandi conflitti sociali fra capitale e lavoro: trasforma questo vissuto in poesia e in racconto civile, in una narrazione ricca e complessa che ha allo sfondo la trasformazione dell’Italia del dopoguerra. Volponi fu indubbiamente un poeta e romanziere di successo.

La seconda professione è quella del dirigente industriale di una azienda singolare come la Olivetti. Volponi viene chiamato da Adriano Olivetti che gli offre l’opportunità di tradurre in pratica l’utopia di un capitalismo riformato dal volto umano, prima affidandogli l’incarico di sviluppare progetti di pianificazione sociale con l’UNRA-CASAS a Ivrea e a Matera; poi affidandogli i servizi sociali della Olivetti; dopo la morte di Adriano, viene nominato Direttore del Personale (Direzione relazioni Aziendali, come lui ribattezzò quella Direzione); e infine, in predicato per diventare l’Amministratore delegato della Società, gli viene preferito un Ammiraglio lontano dalla cultura Olivetti ma che assicurava fedeltà al gruppo che aveva preso il controllo della Società. Volponi fu uno straordinario dirigente industriale efficiente, efficace, di successo finché non si è dimesso nel 1971.

La terza professione, che fluisce ininterrottamente come un magma sotterraneo sotto le prime due, ma che poi, dopo il 1971 si rende autonoma, è quella del riformatore sociale e del politico, prima facendo il consulente di vertice della Fiat e il dirigente della Fondazione Agnelli, poi diventando senatore della Repubblica. Volponi fu sostenitore di una impresa riformista e democratica, di un capitalismo ripensato, ossia un Politico di ampie visioni. In questo ruolo rimase un utopista senza diventare un uomo politico di successo come lo fu come scrittore e dirigente poiché fu continuamente respinto e deluso dal potere. Il politico combatte il potere con il potere e non solo con le idee: Volponi si è misurato sempre con il potere senza opporvi però altro potere che quello delle idee.

Il libro di Maria Laura Ercolani ricostruisce in modo molto documentato, caparbio ed efficace l’intreccio di queste tre professioni nella storia di Paolo Volponi mettendone in luce la nobile e complessa personalità umana. Ma soprattutto documenta e esplora come mai era stato fatto in precedenza il ruolo di Paolo Volponi alla Olivetti, un ruolo in cui egli ha strumentato le utopie sociali di Adriano Olivetti e le sue, prima costruendo concretamente un sistema di welfare aziendale ancora insuperato e poi preparando il terreno per la grande trasformazione del lavoro e dell’organizzazione dalla meccanica all’elettronica, curando la selezione e la formazione di una classe di dirigenti, tecnici, lavoratori, uno “scrigno di competenze” che alla fine degli anni ‘70 faranno il miracolo di salvare la Olivetti dal possibile fallimento dovuto alla perdita della eccellenza tecnologica meccanica seguita all’ingresso dell’elettronica nella produzione di macchine per ufficio. Con il suo team, seleziona, forma e gestisce persone che compiono il miracolo di anticipare il superamento del taylorismo passando dalle catene di montaggio alle isole di produzione, ciò che sembrava una follia a Lenin, a Gramsci, a Valletta, allo stesso Adriano: ma non a Trentin e non a Volponi, che in tutta la sua carriera da dirigente non si era mai stancato di pensare al superamento della alienazione in fabbrica e alla valorizzazione del lavoro e delle persone.

Ercolani inizia il libro ricordando la risposta di Volponi agli studenti di Pesaro nel 1982: Volponi rispose che il suo interesse per il lavoro nei campi, nelle botteghe era vivo in lui già prima che diventasse un dirigente dell’Olivetti, lo documentano le poesie che ha scritto sul mondo contadino, quello delle sue campagne che era quello che conosceva; e comunque pensare a una fabbrica democratica e a un industriale democratico era possibile, come aveva dimostrato Adriano Olivetti.

E’ questo, il lavoro riscattato e l’impresa democratica, il filo conduttore di tutta la storia che si dipana nel libro della Ercolani.

L’esperienza giovanile di Volponi che vede entrare a Urbino nel 1944 le truppe alleate lo orienta subito al programma di ricostruzione dell’Italia uscita dalla guerra e dal fascismo e alla dimensione sociale di questa ricostruzione. Negli anni 1945-1960 – raccontò Volponi – s’è lavorato molto, tutti: si credeva di costruire l’Italia democratica, l’Italia della Liberazione e dell’unità nazionale, si pensava di trasformarla attraverso le riforme. Adesso le crisi sono tante, anche frazionate ad arte: crisi politica, crisi economica, crisi energetica, crisi della ragione. Ma la crisi centrale, vera e più grave, sta nella mancanza di un progetto sociale molto ampio, aperto a tanti contributi, accettabile per tutti.

Volponi, su invito di Adriano Olivetti, comincia a lavorare all’UNRA-CASAS per il programma di ricostruzione non solo fisica di case e paesi distrutti o fatiscenti, di strade e ponti ma anche di ricostruzione sociale : ci vogliono architetti e muratori ma anche esperti di scienze sociali. E’ qui che inizia la collaborazione con architetti, sociologi, assistenti sociali. Lavora al progetto del quartiere Martella di Matera che doveva offrire condizioni di vita più sane e dignitoso agli abitanti dei Sassi, un progetto nobile ma in parte non riuscito. Il tema della distruzione della civiltà contadina sostituita da una civiltà industriale dai caratteri non chiari e non tutti benefici, che mentre crea lavoro spesso lo dequalifica, costruisce città invivibili, distrugge comunità senza ricostruirne di nuove, apre conflitti acuti. Il linguaggio politico del tempo sintetizza tutto questo come il contrasto fra capitale e lavoro, fra forze conservatrici e sinistra, dentro l’inizio della guerra fredda: Volponi vive queste lacerazioni ma la sua risposta è attiva: fare, progettare un futuro, raccontare.

Non deve sorprendere quindi che Volponi accetti di assumere la responsabilità dei servizi sociali della Olivetti senza molti problemi ideologici o politici in una azienda che stava sviluppando forme avanzatissime di welfare aziendale (come oggi si chiama) e di sviluppo delle comunità che integravano industria e agricoltura, cultura industriale e cultura contadina. Biblioteche, servizi sanitari, servizi psicologici, assistenza sociale, asili, colonie di altissimo livello non solo integravano i servizi nazionali insufficienti ad assicurare agli operai una vita decente, ma soprattutto rappresentavano un possibile modello da proporre ad altre aziende, territori, politiche nazionali. Volponi, come racconta Ercolani, si impegna a capo fitto con passione e competenza e fa dei servizi sociali Olivetti un modello che è stato imitato anche ai giorni nostri ma mai eguagliato. Le critiche del Partito Comunista e della CGIL al supposto “paternalismo” di Adriano Olivetti, credo che non lo sfiorino più di tanto tranne che nelle conversazioni con i suoi amici intellettuali romani, in cui talvolta sente di doversi giustificare di essere “a servizio dei padroni”.

Dopo la morte di Adriano, Volponi viene nominato Capo del Personale, anzi Direttore della Direzione Relazioni Industriali – come lui la ribattezzò – che includeva la gestione delle retribuzioni di tutto il personale dai dirigenti agli operai, la valutazione, le assunzioni, la formazione, il counseling al personale di fabbrica ora definito “gestione del personale”, i centri di sociologia e di psicologia, le relazioni sindacali, le relazioni istituzionali e molto altro. Se non ricordo male anche i servizi sociali che affiderà a Giannorio Neri. Con questo Volponi da una parte entrava nel vivo di quella condizione lavorativa di operai e impiegati che aveva studiato da lontano e dall’altra entrava nei rapporti di potere al vertice dell’azienda. Ercolani ha trovato documenti di Volponi che esprimono la sua visione riformatrice: riorganizzare la tecnostruttura e liberare il lavoro, abilitare e responsabilizzare dirigenti e quadri, soprattutto creare una tensione verso la realizzazione di una azienda democratica: quelle pagine sono tra le più interessanti del libro, perché testimoniano l’intenzione di Volponi non solo di gestire nel modo migliore le persone (sarebbe inorridito a sentirle parlare di “capitale umano”) ma di preparare una struttura organizzativa e un modello professionale che si allontanasse dal modello burocratico e taylorfordista che dominava anche nella umana azienda Olivetti. Si circonda di giovani brillantissimi: da Umberto Chapperon, a Tullio Lembo, a Giorgio Arona, a Romano Gabriele, a Giovanni Maggio, a Giannorio Neri, a Renato Rozzi, a Tiziano Terzani: io ero il più giovane e di gran lunga il meno intellettuale. Si appoggia a giganti come Guido Calogero, Cesare Musatti, Franco Momigliano. Non ha tempo di realizzare trasformazioni operative nella struttura organizzativa e del lavoro ma fa molte cose cruciali che predispongono la rivoluzione post-tayloristica del 1969 e accreditano lui per assumere più tardi l’incarico di Amministratore Delegato: un vasto e innovativo piano di formazione di dirigenti e quadri industriali e commerciali, svolto nelle scuole aziendali e in USA; l’assunzione di oltre 400 laureati sia neo che con esperienza; l’attivazione di gruppi di studio per le riforme; una serie di convegni interni molto avanzati ( fra cui quello sui Capi Intermedi a villa Natalia a Firenze in cui per la prima si annunciava che era possibile assegnare maggiori responsabilità alle decine di migliaia di operai e impiegati d’ordine che soffrivano del lavoro in frantumi). Inaugura un dirigere diverso. E inoltre Volponi scrive proposte di riforma dell’impresa che presenta ai dirigenti e al Presidente Visentini. Scrive Ercolani: “Il lavoro di Volponi come Direttore del personale fu efficace: l’Olivetti ritrovò lo slancio dei tempi di Adriano e si riprese. Ma ciò non fu sufficiente a convincere alti dirigenti e azionisti della validità dell’eredità di Adriano e del suo progetto di rinnovamento perché il destino dell’Olivetti venne deciso da interessi esterni all’azienda e da capitali il cui fine immediato era il profitto degli investitori e che già, agli inizi degli anni sessanta, controllavano tutto il paese nel suo assetto politico e sociale”.

Nel 1969, Gallino va via e Volponi mi affida il Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione. Io cambio registro e mi dedico a coordinare un programma di ricerca e intervento sulle trasformazioni organizzative in fabbrica. Le idee erano in gran parte quelle sviluppate e discusse con Volponi e del suo team ma ora l’occasione storica era drammatica. Olivetti in quegli anni era un’azienda di 40.000 dipendenti che aveva avuto uno sviluppo formidabile ma che aveva subito lo scippo della grande elettronica. Ora – a causa della concorrenza delle macchine elettroniche giapponesi – si trovava di fronte all’obsolescenza della sua tecnologia di base, di prodotto e produzione: dai pezzi di ferro ai chip. Ricercammo su quello che avveniva in azienda, studiammo quanto accadeva nel mondo e insieme con i manager e tecnici della produzione proponemmo un nuovo modello di produzione. Scoprimmo che era possibile sviluppare una modalità produttiva flessibile che i tecnici di fatto stavano già escogitando. Il Direttore di Produzione Gribaudo lesse il mio report, mi chiamò alle 20 a casa e mi chiese “Butera, ma è vero che noi stiamo facendo queste cose?” e io gli risposi “ Sì, ma non avete capito il significato e le implicazione di questi esperimenti”. “Venga domani mattina alle 8”, E così partì un progetto di Change Management Strutturale, come poi lo avrei chiamato. Smontando le lunghe catene di montaggio e costituendo isole di produzione: nacquero così le Isole di Montaggio, le UMI (Unità di montaggio Integrate) che divennero un nuovo modo di produzione, partecipato dal sindacato, con un imponente programma di formazione degli operai, quadri e dirigenti. L’Olivetti sopravvisse mentre l’Olimpia, il suo competitor più grande, chiuse.

Intanto il prof. Bruno Visentini, Presidente della Olivetti e già Ministro delle Finanze, propone in un primo momento a Volponi di assumere l’incarico di Amministratore Delegato. Volponi ha dubbi testimoniati dalle lettere a Pasolini e ad altri. Poi dice di sì e presenta un piano. La descrizione di questo piano è raccontata nel romanzo Le mosche del capitale. Il piano è presentato da Saraccini (Volponi) al Presidente Nasàpeti (Visentini) alla vigilia della sua nomina ad Amministratore Delegato. Quando Visentini gli comunica che il Gruppo di Controllo vuole una diarchia con l’ammiraglio, ingegner Ottorino Beltrami, persona di una cultura ortogonale a quella della Olivetti, Volponi si dimette sbattendo la porta.

Sembra la fine dell’utopia della azienda innovativa e democratica che aveva guidato la sua avventura in azienda. Invece Umberto e Gianni Agnelli lo incaricano di farne un progetto per la Fiat. Ercolani descrive in dettaglio quel progetto. Però questa ipotesi di riforma octroyè in una azienda che non aveva lo “scrigno di competenze” e l’ “anima” della Olivetti non poteva funzionare. E infatti Volponi viene prima messo ai margini e poi inviato alla Fondazione Agnelli. E quando si viene a sapere che aveva appoggiato la lista del PCI, viene messo alla porta.

Ercolani descrive la sue esperienza da senatore del PCI e poi di deputato di Rifondazione Comunista. Continuerà, oltre che a scrivere, a fare proposte parlamentari nello spirito della sua esperienza olivettiana , ma dal Senato non emerge nessun programma di riforma dell’impresa e del lavoro concordata con imprenditori e sindacati, come frattanto stava avvenendo in Germania con la Mitbestimmung e in Scandinavia con Industria Democracy.

Volponi è affascinato dal potere con cui entra in contatto con l’intenzione di piegarlo ai suoi ideali: ma contro il potere del Gruppo di Controllo dell’Olivetti, della dirigenza Fiat, degli apparati comunisti e democristiani, la sola forza delle idee è destinata a perdere.

L’eredità di Volponi però rimane viva nei suoi scritti, nei progetti, nei percorsi. Rimane viva nella trasformazione industriale a cui lui aveva dato un contributo importante. Oggi all’inizio della quarta rivoluzione industriale di quei modelli e di quei percorsi c’è un bisogno maggiore che negli anni ‘70 e ‘80. Il libro di Maria Laura Ercolani allora descrive un unfinished business, di cui la storia di Paolo Volponi è fonte di grande apprendimento.

Il futuro del nostro paese è ancora legato alla valorizzazione del lavoro a 360 gradi: alla visione di un Paese che riposiziona verso l’alto la propria produzione di beni e servizi aumentando la propria quota di fatturato sul mercato mondiale; sviluppa sistemi di impresa rete e ecosistemi cognitivi; valorizza l’enorme patrimonio di imprenditoria e di beni naturali, artistici e culturali; migliora la produttività, anche con l’adozione di tecnologie digitali; esalta il saper fare italiano; potenzia i sistemi educativi; riorganizza la pubblica amministrazione; rispetta i diritti: riduce le disuguaglianze; assicura legalità e giustizia in tempi civili; protegge l’ambiente.

Oggi occorre incoraggiare e mettere in connessione i progetti e le politiche che valorizzano il lavoro di qualità, che sviluppano insieme tecnologia, organizzazione, lavoro, che si danno obiettivi economici e sociali. L’esperienza di Volponi ha a che fare con tutto questo.

Il futuro ha un cuore antico.

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