Progettare insieme tecnologia, organizzazione, lavoro: una proposta
di Federico Butera e Giorgio De Michelis
In Italia, da tempo, si parla intensamente di sostenere e promuovere l’innovazione sia nel settore pubblico ma le azioni e i risultati sono minori dei proclami. Iniziative come l’Agenda Digitale nel settore pubblico e il programma Industria 4.0 nel settore privato sono importanti ma insufficienti nel volume e nell’ampiezza degli investimenti previsti.
È certo che un fattore frenante non da poco è costituito dalla scarsa convinzione con cui i governi hanno promosso i piani a supporto dell’innovazione: scarsa sponsorship governativa ai programmi di innovazione della macchina statale e continuo stop and go dei programmi di finanziamento dell’innovazione: Questo per le imprese italiane hanno fatto crescere un atteggiamento di scarsa convinzione negli attori interessati e favorito chi ha interpretato in modo ristretto e opportunistico le provvidenze pubbliche. Ma le responsabilità politiche non devono nascondere quelle degli stessi attori. E infatti essi si lamentano per l’incertezza dei finanziamenti associati ai piani per l’innovazione ma non riflettono sulle loro difficoltà di promuovere e gestire l’innovazione.
Infine, a differenza dei programmi in corso in Germania, Francia, Scandinavia qui i piani di supporto alle imprese si sono concentrati prevalentemente sul rinnovamento dei macchinari; le informazioni sulle innovazioni sono imprecise e scarsamente utilizzabili dagli innovatori; la formazione digitale non ha ancora trovato strade condivise e efficaci. In sintesi, non ci sono ancora politiche industriali e educative capaci di aiutare davvero le imprese a innovare e riorganizzarsi e di supportare i lavoratori a rafforzarsi nella transizione.
L’innovazione non si adotta, si progetta
In Italia vi è un ritardo tecnologico molto marcato che ha sempre condizionato le potenzialità di crescita e di sviluppo del paese, anche se ciò non ci ha impedito di avere un settore manifatturiero competitivo su scala globale.
Che cosa è il ritardo tecnologico? Non solo il tasso di adozione di tecnologie digitali in Italia non è all’altezza del peso economico del Paese ma esso è stato considerato l’unico indicatore delle innovazioni che le imprese stavano portando avanti. Da ciò è seguito che, nelle nostre politiche pubbliche, l’idea di innovazione sia stata ridotta all’adozione di nuove tecnologie. Persino il programma Industria 4.0, probabilmente il miglior piano di politica industriale che abbiamo elaborato e messo in essere in Italia, ha graduato nel tempo i suoi interventi di sostegno in modo tale che l’acquisto di nuovi macchinari (più limitatamente di software) da parte delle imprese è apparso come l’obiettivo principale che esso si dava.
Ma proprio in questa riduzione dell’innovazione alla sua componente tecnologica ed alla sua versione standardizzata e commodificata è il nocciolo del perché in Italia non si riesce a fare davvero innovazione. Se consideriamo le medie imprese eccellenti che tengono il nostro paese in una posizione di leadership del manifatturiero, è chiaro che queste, hanno raggiunto posizioni di prestigio proprio grazie all’innovazione che hanno saputo mettere nei loro prodotti e servizi. L’adozione di tecnologie digitali per loro è stato un utile strumento per adeguare le proprie prestazioni rispetto a quelle della concorrenza, ma quella innovazione non è stata la sola che ha assicurato loro il successo: invece esse hanno progettato il proprio processo di business in modo tale che la distintività dell’offerta non venga indebolita dall’adozione di sistemi tecnologici standard. Da qui emerge che l’innovazione è tale solo se è il frutto di un progetto di strategia di business e di capacità di personalizzare tecnologia organizzazione, lavoro.
L’innovazione non è un fatto puramente tecnologico
Le nuove tecnologie stanno già cambiando e sconvolgendo l’esistente e ancor più lo faranno in futuro: ma solo le politiche e la progettazione disegneranno il nostro futuro. Questo approccio ribalta l’attuale dibattito: passare dagli effetti economici e sociali delle tecnologie alla progettazione congiunta e partecipata.
Questa progettazione:
- avrà per oggetto tutti i diversi livelli di realtà produttive e sociali, ossia le città, le imprese, le amministrazioni e soprattutto i lavori e i modelli di lavoratori, cittadini, persone che vorremmo avere
- verrà svolta da attori diversi portatori di interessi diversi con modalità partecipative e negoziate
- sarà basata su concordati parametri di prosperità economica, sostenibilità e qualità della vita.
Proponiamo un modello di progettazione congiunta di organizzazione, lavoro e tecnologia per cui risulti conveniente sviluppare un’innovazione che includa tecnologie dell’informazione non sostitutive del lavoro umano ma capaci di dare più valore al valore del lavoro organizzato, che è la “ricchezza delle nazioni” come diceva Adam Smith. Anche le tecnologie di punta come l’intelligenza artificiale possono infatti creare sistemi che aricchiscono il lavoro, quello che il World Economic Forum chiama la augmentation strategy.
La progettazione congiunta di organizzazione, lavoro e tecnologia people centred abilita le persone a governare situazioni ad alta complessità, innovare, dare senso alle cose, creare situazioni di benessere e equità per le persone e la società . Servono in questi casi sistemi, che usano la loro superiore capacità di elaborare masse immense di informazioni, per dare ad ogni utente in ogni diversa situazione risposte diverse che non ne snaturano l’identità e l’esperienza ma lo aiutano ad evitare errori e a far tesoro delle esperienze sue e di altri.
Che vuol dire una progettazione di tecnologie people centered
- Sviluppare sistemi che contestualizzano, personalizzano, ascoltano, fanno tesoro delle esperienze di relazione con il cliente esterno o interno ad una organizzazione.
- Sviluppare sistemi che integrano le conoscenze e potenziano le capacità degli uomini per affrontare compiti difficili o impossibili, non tecnologie che gareggiano ad essere più intelligenti degli uomini. Il servizio di queste tecnologie non si limita al singolo ma si estende a comunità anche molto allargate, che collaborano nelle loro attività e nel continuo aggiornamento delle loro competenze e pratiche professionali.
- Sviluppare sistemi che riconoscono e valorizzano le differenze fra le persone e tra le loro esperienze e che creano condizioni di inclusione e di qualità della vita, tenendo conto dei diversi punti di partenza delle persone, dei gruppi, delle comunità: non standardizzazione ma presa in carico della individualità di ciascuno e delle situazioni di contesto.
Questo è richiesto e facilitato dal fatto che anche le organizzazioni e il lavoro si stanno innovando profondamente da tempo e ora, sotto la spinta del digitale, stanno virando ad una velocità senza precedenti verso nuovi modelli flessibili, sostenibili, antropocentrici.
- Strategie. Nuovi business model basati su prodotti e servizi utili centrati sui singoli clienti o classi di clienti o progettati dai clienti stessi.
- Macro-organizzazioni. Reti organizzative planetarie; piattaforme industriali; piattaforme digitali; ecosistemi cognitivi, che valorizzano tutti i “nodi” di queste organizzazioni complesse (aziende, istituzioni, professioni).
- Funzionamento organizzativo. Organizzazioni lean flessibili, basate su sistemi di coordinamento e controllo non gerarchici e su potenti processi informativi e ideativi. In una parola organizzazioni evolutive e flessibili come piccole società sane e performanti.
- Impresa integrale. Nuova cultura ed etica dell’impresa, che porti a costituire imprese capaci di equilibrare efficacia, efficienza, sostenibilità, qualità della vita.
- Una nuova idea di lavoro, ben diversa dal lavoro tayloristico dei giga jobs o dei lavori super specialistici transitori, già si concretizza in molti casi sia nel lavoro altamente qualificato (knowledge worker) che nel lavoro semplice, entrambi basati su conoscenza, responsabilità dei risultati e competenze tecniche e sociali.
Alcune proposte: progettazione, politiche, movimento culturale
Su questi argomenti, e secondo le linee qui accennate, abbiamo sviluppato alcune riflessioni e proposte per la discussione e per l’azione.
La radice di queste proposte è che rimettere al centro il lavoro non può essere una affermazione ideologica ma richiede una progettazione dei contenuti dei ruoli, dei mestieri, delle professioni e delle relative competenze fatta in modo integrato con le tecnologie e con l’organizzazione e specifica ai diversi contesti. Ciò, a sua volta, richiede una collaborazione fra imprese, istituzioni, pubbliche amministrazioni, scuole, sindacati, media.
- La prima proposta è quella di progettare le tecnologie nel contesto (Giorgio De Michelis, Tecnologie e lavoro nel contesto, in Studi organizzativi n. 1, 2019). Il digitale non è assimilabile ad una tecnologia di produzione ma è una tecnologia sociale che modifica i rapporti sociali; esso è una tecnologia pervasiva –potremmo dirla universale- che modifica radicalmente il rapporto tra l’uomo e la conoscenza, nel senso che rende direttamente accessibili tutte le informazioni -e quindi tutte le conoscenze esplicite, ma non solo. Essa è in modo crescente capace di dare risposte esatte a quesiti ben formulati, senza rendersi conto: ma il saper far fronte a situazioni complesse e mutevoli utilizzando al meglio la conoscenza che possiamo ricavare dagli studi e dalle esperienze nostre e di altri che hanno affrontato problemi simili richiede ( e rende possibile) una nuova collaborazione fra umani e tecnologia. Ad esempio, nel progettare un servizio di cognitive computing, il disegno del sistema tecnologico (hardware e software, dati e algoritmi) deve e può essere integrato con il disegno dei ruoli delle persone coinvolte e con il funzionamento organizzativo in cui esse opereranno.
- La seconda proposta è rilanciare il job design e re-design, ossia la progettazione e riprogettazione dei lavori, nei loro contenuti, nel loro valore, nelle loro qualità, delle loro identità. Ciò sia nei contesti ad alta tecnologia (i così detti nuovi lavori) sia in quelli tradizionali. Lavori che creano valore economico, sociale e culturale. Lavori “ibridi” che si avvalgono delle capacità abilitanti delle tecnologie: dai robot collaborativi che sono di supporto ai “lavoratori aumentati” come il caso del sistema di IA Watson che aiuta i medici a fare diagnosi e concentrarsi sulla cura del paziente. Lavori che suscitano impegno e passione. Lavori basati su conoscenza, responsabilità dei risultati, cura dei bisogni dei “clienti” esterni o interni, padronanza e controllo dei processi, cooperazione con le persone e con la tecnologia, competenze tecniche e sociali. Lavori fatti di relazioni positive tra le persone e le macchine. Lavori che includono anche il «workplace within», ossia il posto di lavoro che è dentro le persone: la loro formazione, le loro storie lavorative e personali, le loro aspirazioni e potenzialità. Lavori con accettabili confini mobili con il tempo di vita, tali da garantire un’alta qualità di entrambi. Lavori dipendenti e autonomi che hanno simili protezioni giuridiche. Lavori che godono di una accettabile qualità della vita di lavoro.
Si propone in sintesi di accelerare un percorso di valorizzazione strutturale del lavoro umano, già in atto nei contesti più virtuosi, puntando a una “professionalizzazione di tutti” e non solo di una élite. Professionalizzazione vuol dire non solo aumento di complessità e di valore delle prestazioni e delle responsabilità ad ogni livello di qualificazione (da precisare e sviluppare nel caso di un progettista di tecnologie e da riprogettare radicalmente e arricchire nei casi di un operaio alla catena di montaggio o di in un operatore di un supermercato, che manterranno un loro ruolo anche in presenza di macchine sempre più sofisticate) ma anche rafforzamento della dignità, della riconoscibilità sociale e del ruolo sociale di ogni lavoratore in ogni forma di rapporto di lavoro, da quello autonomo a quello “subordinato” (Federico Butera Lavoro e organizzazione nella quarta rivoluzione industriale: la nuova progettazione socio-tecnica, in L’Industria, n. 3, luglio-settembre 2017).
- La terza proposta è quella di valorizzare e supportare la progettazione dell’impresa e dell’organizzazione, il business and organization design. Le grandi imprese che sono andate più avanti nella digital transformation hanno sviluppato organizzazioni innovative avvalendosi di tutta l’esperienza di lean management centrate sui processi ma anche rendendole agili, aperte, parzialmente self-managed. Le piattaforme digitali e che hanno sostenuto la nascita e lo sviluppo dei giganti del web contengono nuove forme potenti, seppure alle volte inquietanti, di modelli di business e di organizzazione di impresa con cui bisogna fare i conti: non sono la one best way delle piattaforme ma certo hanno mandato in soffitta i castelli verticalizzati delle Krupp del secolo scorso. Berners Lee ha mostrato che nuovi modelli di piattaforme sono possibili, ed esse non sono appannaggio esclusivo dei giganti nordamericani, come mostrano in piccolo Yoox e altre imprese Europee. Le imprese dell’Italian Way of Doing Industry, in generale, hanno sviluppato modelli di impresa e organizzazione originali rispetto a quelli nordamericani. Le imprese hanno avuto maggiori opportunità di crescere quando i loro business model si sono basati su prodotti e servizi centrati sui singoli clienti o specifiche classi di clienti, crescendo insieme ai loro mercati, andando oltre all’economia di scala. Abbandonando la centralizzazione e verticalizzazione dei tradizionali “castelli” organizzativi, le nuove reti d’impresa e le imprese rete hanno fatto diventare grandi le piccole e medie imprese aggregandole entro catene del valore e processi planetari per mezzo di sistemi di connessioni tecnologiche, economiche, culturali. Gli “ecosistemi sociali dell’innovazione” sono stati spesso nuovi modelli di relazioni sociali e professionali che generano innovazione, come nel caso irraggiungibile della Silicon Valley e in quelli invece raggiungibili dei nuovi distretti allargati italiani, dall’area di Agrate alla Motor Valley Emiliana. Le microstrutture delle aziende che hanno avuto successo hanno abbandonato i reparti e gli uffici divisi tradizionalmente in base al controllo gerarchico esercitabile e ne hanno creato di nuovi basati su processi formalizzati, supportati da tecnologie ICT, ben controllati e continuamente migliorati affidati a team e comunità di pratica caratterizzati da modelli 4C (cooperazione autoregolata, condivisione di conoscenze, comunicazione planetaria, comunità). Queste forme organizzative non sono più burocrazie industriali ma forme organizzate e flessibili di nuova concezione composte da strati organizzativi coesistenti, di cui quelli formali (organigrammi, mansionari, procedure) sono solo lo “zoccolo duro” che sostiene altri strati basati su regolazione sociale (team dinamici, sistema professionale, knowledge management, comunità di pratica, cultura organizzativa, modelli di leadership, etc.).
Nuovi modelli di impresa e nuova scienza organizzativa, per virtù delle imprese dell’Italian Way, abbandonano così Max Weber e Ford. Nuovi metodi e percorsi stanno emergendo e dovranno poter essere adottati da tutti, come è avvenuto per il taylor-fordismo e per la lean production (Federico Butera La ricerca-intervento sull’organizzazione. Rivoluzionare modelli e metodi, in Sviluppo e Organizzazione, Maggio Giugno , 2017, con commenti di G. De Michelis, G. Dioguardi, G. Rebora, M. Martinez).
- La quarta proposta è sviluppare e diffondere metodologie di progettazione socio-tecnica che sappiano coniugare, nelle condizioni oggi possibili, innovazione tecnologica e organizzativa e sviluppo delle persone, non solo per massimizzare il PIL ma anche il Bes (Benessere equo e sostenibile) 1 . Non si tratta solo di adottare ispirazioni generiche ma sviluppare vere e proprie metodologie. La Lean della Toyota e il WCM della FCA hanno adottato metodologie solide e stringenti che tengono conto dei processi, dei risultati, dei ruoli, delle interazioni: in una parola formalizzazione dell’organizzazione del lavoro. Vi sono un gran numero di metodologie di progettazione socio-tecnica, adatte alle imprese minori e alle Pubbliche Amministrazione e che tengono conto di parametri di sostenibilità e qualità della vita di lavoro. E’ il momento di rimetterci a studiare e applicare nuovi metodi (Emanuela Shaba, Marco Guerci, Silvia Gilardi, Emilio Bartezzaghi, Industry 4.0 technologies and organizational design – Evidence from 15 Italian cases (Le tecnologie dell’industria 4.0 e il design organizzativo: evidenze da 15 casi italiani), in Studi Organizzativi, 1 2019).
- La quinta proposta è di rilanciare la formazione manageriale, dei manager privati e pubblici, dei dirigenti sindacali, e degli imprenditori. Occorre rilanciare una nuova scienza del management e della governance dell’impresa, delle Pubblica Amministrazione, delle organizzazioni no profit in un percorso di collaborazione fra istituzioni scolastiche (università e scuole superiori) e imprese, con teorie e metodi formativi diversi da quelli tradizionali: dalla business administration al business design. Il ruolo degli imprenditori e del management in questo percorso è cruciale: architettare, promuovere, sostenere l’innovazione; perseguire in modo congiunto obiettivi economici di medio e lungo periodo, obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, obiettivi di qualità della vita di lavoro, proteggere l’impresa dalle diseconomie e dalle minacce esterne; attivare e mantenere percorsi di dialogo con tutti gli stakeholder. Tutto ciò richiede lo sviluppo di un “management ambidestro”, capace cioè insieme di gestione quotidiana accurata e di innovazione prospettica. Nuove forme di governance sostanziale dell’impresa, soprattutto quella di minori dimensioni, che attrae risorse professionali e finanziarie per lo sviluppo dell’impresa nella quarta rivoluzione industriale (Per un nuovo modello di management della piccola impresa: dimensioni organizzative coesistenti, reti di impresa, governance condivisa, in Studi Organizzativi 2, 2012).
- La sesta proposta è attivare cantieri di partecipazione progettuale. È l’imprenditore, il manager, il dirigente pubblico, che si assume il rischio di indicare la direzione, avere l’ultima parola. Ma la nuova situazione è che nessuno sa tutto quello che è necessario per affrontare questo enorme impegno progettuale che richiede in misura uguale scienza e applicazione, scienza e arte, creatività e rigore. None of us is as smart as all of us, come scriveva in proposito Kenneth Blanchard. La progettazione non si esaurisce nelle dimensioni fondative dei “tre pilastri” ma la vera partita sarà la realizzazione e l’innovazione continua, una battaglia quotidiana nei processi realizzativi, nel controllo delle varianze e dei dettagli che accompagnano l’innovazione: progettare un futuro che è già qui, un futuro accorciato. Quindi è necessario mobilitare tutte le conoscenze e competenze di scienziati, manager, lavoratori qualificati e meno qualificati, consumatori, in questo corale processo continuo. Lo ripetiamo: non solo scienziati e tecnici sono partner naturali dell’innovazione ma anche i lavoratori, i consumatori, i cittadini: lo dimostra il successo del modello del miglioramento continuo della Toyota o lo sviluppo dei prosumer di Tripadvisor.
La partecipazione delle persone nel vivo dei processi di innovazione è d’altra parte il più potente sistema di apprendimento e di crescita professionale e civile e prepara le persone ad affrontare i continui cambiamenti che li attendono. Il cambiamento continuo richiede la valorizzazione delle osservazioni e delle valutazioni di chi fa quotidianamente l’esperienza della produzione e del consumo.
Nuove forme di tecnologia contestuale, nuovi paradigmi di lavoro e di organizzazione, nuova sociotecnica, procedure di partecipazione sono i cardini di nuove modalità con cui gli stakeholder della Quarta Rivoluzione Industriale prenderanno parte a progettare le imprese, le pubbliche amministrazioni, le città, i territori, le piattaforme (Federico Butera Industria 4.0. come progettazione partecipata di sistemi socio-tecnici in rete, in Le trasformazioni delle attività lavorative nella IV Rivoluzione Industriale a cura di A. Cipriani, A. Gramolati, G. Mari , Firenze University Press, 2017).
Le politiche
Un ruolo centrale rimane allo Stato, alle Regioni e ai corpi intermedi nello sviluppare le politiche che possono avorire quanto abbiamo illustrato.
Innanzitutto, le politiche industriali come quella iniziata nel programma Industria 4.0 che si è concretizzata nel far ripartire gli investimenti tecnologici: ora si tratta di sostenere l’innovazione nella progettazione dell’organizzazione e del lavoro, soprattutto delle Piccole Medie Imprese. Il sostegno agli esperimenti di innovazione organizzativa e professionale ha precedenti importanti in Giappone (con un ruolo centrale del Juse, nello studio e nella diffusione di quello che gli americani chiameranno lean management), in Germania (con il programma Humanisierung der Arbeit che mobilitò l’accademia e la consulenza a supporto di progetti di cambiamento organizzativo e professionale concordati fra imprese e sindacati).
Fondamentali le politiche di gestione della transizione: le persone che perderanno il lavoro non saranno per lo più quelle preparate per i nuovi lavori che nasceranno. Sapienti politiche di outplacement, capaci di combinare formazione, ricollocazione e difesa del reddito saranno necessarie. E soprattutto dovranno essere rapidamente implementate.
Un caso italiano in corso è il Patto per il Lavoro della Regione Emilia Romagna, che mette insieme programmazione regionale, politica industriale e politica del lavoro e formativa. Esso è un programma lanciato dall’Amministrazione Regionale centrato su un obiettivo sintetico chiave costantemente monitorato (passare dall’11 al 5% di disoccupazione nell’arco di un quinquennio), partecipato da imprese, istituzioni, scuole, sindacati che ha avuto risultati tangibili e un grande successo: si è conseguito l’obbiettivo con una disoccupazione al 4,8%.
Altre linee di politiche pubbliche andranno attivate fra cui: potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica, investimenti infrastrutturali; politiche fiscali in materia digitale (per es web, digital tax); interventi selettivi sull’orario di lavoro; forte potenziamento di investimenti nella istruzione e formazione tecnica; defiscalizzazione del lavoro giovanile e altro.
Esistono proposte di politiche societarie che dovrebbero ridefinire il modello di società e di produzione. Le correnti che propugnano l’economia circolare prevedono l’estensione della vita dei prodotti, la produzione di beni di lunga durata, le attività di ricondizionamento e la riduzione della produzione di rifiuti, l’importanza di vendere servizi piuttosto che prodotti.
Ma queste politiche stanno alla organizzazione e al lavoro di produzione di beni e servizi -la primaria generatrice di valore e di lavoro- come il calore del sole sta al germogliare dei semi piantati nel terreno o il calore della chioccia o dell’incubatore stanno allo schiudersi dell’uovo: se la biologia del seme o la fecondazione dell’uovo non sono adeguati, non nascerà la pianta e non nascerà il pulcino o nasceranno deformi. L’uovo e il seme sono i sistemi: la fabbrica, gli uffici, l’impresa, la rete organizzativa, la piattaforma, l’ecosistema, e soprattutto le persone che devono possedere e potenziare le risorse di vitalità e nella qualità della vita di lavoro.
Un movimento culturale
Tutto quello che abbiamo evocato è di tale magnitudo da sporgere largamente su quello che i singoli soggetti e lo Stato possono fare. Occorre che si sviluppi ora un vero e proprio movimento culturale che faccia della valorizzazione del lavoro e della innovazione congiunta di tecnologia, organizzazione e lavoro, un terreno condiviso di riflessione, sperimentazione, esperienza aperto al confronto con le idee che nascono ovunque nel mondo. E soprattutto che affermi il primato dell’esserci riusciti su quello di averlo enunciato o di averlo tentato.
La proposta di rimettere davvero al centro il lavoro come fonte di sicurezza, dignità, democrazia viene da tante parti. La voce più forte che colloca il tema della promozione del lavoro entro il quadro di una evoluzione del sistema economico e della protezione dell’ecosistema fisico e sociale viene da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì.
Il dibattito e le azioni sulla quarta rivoluzione industriale aprono temi e scelte che riguardano l’orientamento culturale e politico di tutti e si intrecciano con altri grandi temi, interessi, posizioni, culture. L’orientamento progettuale che abbiamo proposto non evita queste grandi questioni ma le inquadra entro percorsi dove prevalgono i dati, i fatti, i progetti, i risultati e la partecipazione.
Un movimento culturale che si prenda in carico seriamente il tema dell’ambiente e nel nuovo modello economico e sociale per salvare il nostro pianeta.
Fondamentale è il tema della comunicazione: tv, cinema, social media, giornali, pubblicazioni devono essere in grado di diffondere concetti, informazioni, casi a un largo pubblico e ai giovani. Oggi, non lo fanno.
Progettare cosa, con quale fine? Nel processo di progettazione, oltre alle opzioni sulle alternative del prodotto o servizio specifico, del progetto specifico, sono contenute spesso le grandi opzioni sul modello di economia e società, dal modello di crescita indefinita a quello dell’economia circolare. «Allargare la torta» come abbiamo detto, richiede opzioni rispetto alle tipologie di bisogni: soddisfare bisogni superflui dettati dal consumismo oppure piuttosto sforzarsi di offrire prodotti e servizi per soddisfare bisogni assoluti o evolutivi della maggior parte degli abitanti del pianeta?
Il tema della diseguaglianza è cruciale, ora che l’egemonia della finanza sull’economia si sta accentuando.
Le opzioni culturali e etiche pesano: progettare tecnologia, organizzazione, lavoro in una visione e finalità “Trumpiane” non è lo stesso che farlo in una visione e finalità, per esempio “Francescane” (in riferimento alla già citata enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco).
Le problematiche di sostenibilità ambientale richiedono di definire e negoziare parametri di sostenibilità, che sono sia materia di analisi scientifica e sia di controversie politico-ideologiche. Un nuovo rapporto uomo-ambiente, in cui lo sviluppo socioeconomico – così come definito dai Sustainable Development Goals approvati all’unanimità dall’assemblea generale dell’ONU – avvenga all’interno dei Planetary Boundaries, ossia quei limiti fisici ed eco-sistemici che non devono essere valicati affinché questo sviluppo possa avere luogo (quali, giusto per citare quelli purtroppo già oltrepassati: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modifica del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo e i cambiamenti nell’uso del suolo).
Altri parametri di progettazione riguardano la qualità della vita dei lavoratori e dei cittadini. Diverse, e non riconducibili le une alle altre, sono le dimensioni dell’integrità della vita: integrità della vita fisica (infortuni, nocività, ergonomia fisica, salute); integrità cognitiva (abilitazione a portare sul lavoratore il locus of control, stress and strain; integrità professionale (dignità e rispetto; responsabilità e visibilità sui risultati; retribuzione; sviluppo, formazione continua); integrità della vita sociale (work life balance); integrità del sé (identità personale e professionale, idea del futuro). Il lavoro diventa così generatore non solo di soddisfazioni di bisogni legittimi ma fonte di costruzione di persone integrali, di autocoscienza, di socialità e di riconoscimento sociale.
Una rete per l’innovazione in Italia: noi ci siamo
Rileggendo quanto scritto qui sopra, emerge con grande forza la complessità e la vastità delle cose che si possono e si devono fare per sostenere la partecipazione attiva del nostro paese ad uno sforzo di innovazione. E’ chiaro che ragioni economiche, culturali e sociali rendono inimmaginabile che i governi italiani oggi si possano imbarcare in un piano organico, strutturato e compiuto che le sostanzi e governi, come lo fu il New Deal di Roosevelt, la Mitbestimmung di Helmuth Schmidth, l’Industrial Democracy di Olaf Palme, il Reinventing Government di Clinton e Gore. Ma forse lo possono fare in parte i governi regionale come suggerisce il citato Patto per il Lavoro di Stefano Bonaccini e Patrizio Bianchi in Emilia. Lo possono fare le associazioni intermedie come indica il progetto Far Volare Milano proposto a tutte le istituzioni da Asolombarda. L’elenco potrebbe continuare.
Come abbiamo ricordato anche nelle pagine precedenti, un gran numero di significative iniziative innovative che sono perfettamente coerenti con quanto detto sopra sono già in corso nel nostro paese e, a partire da esse, possiamo trovare le energie intellettuali ed etiche per far crescere un movimento davvero impegnato nello sviluppo dell’innovazione.
La Community Progettare Insieme. Tecnologia, organizzazione, lavoro
La comunità “Progettare insieme” che abbiamo lanciato nel 2018 e che ha visto crescere le sue iniziative nel 2019 è appunto un contributo alla creazione di una vasta comunità di attori impegnati nel fare, valutare e diffondere l’innovazione a 360 gradi in Italia.
Che cosa è?
La Community è un think tank, indipendente, apartitico, senza fine di lucro costituito da noti studiosi, imprenditori, pubblici amministratori, sindacalisti, docenti, giornalisti, consulenti di diverse appartenenze disciplinari, culturali e politiche ma tutti accomunati da elevata competenza, reputazione e visibilità e dal rilievo dei contributi generati negli anni nelle politiche e nelle progettazioni integrate.
La partecipazione alla Community è personale e non avviene in rappresentanza della impresa, associazione, università, giornale, partito, sindacato di appartenenza. L’adesione è senza oneri economici. La Community non ha un suo budget e non svolge direttamente operazioni di ricerca, consulenza, formazione ma
- promuove il dialogo fra le persone, le organizzazioni, i network, talvolta appartenenti a universi diversi.
- diffonde le attività e i progetti delle persone e delle altre comunità con cui è in contatto, anche attraverso i partner aderenti)
Le proposte della Community
Intervenire sul lavoro solo per leggi e per decreti non è sufficiente. Fermarsi a richiedere investimenti che non arrivano mai è frustrante. Gestire le imprese esclusivamente in base allo shareholder value è l’origine di tutti i mali. Le relazioni industriali limitate solo su temi redistributivi è un limite allo sviluppo.
Proponiamo dunque di
- progettare insieme: insieme tecnologia, organizzazione, lavoro; insieme imprese, istituzioni, ricerca, sistema educativo, sindacati, cultura.
- Proponiamo politiche di low government abilitanti, che attivino collaborazione fra i soggetti istituzionali ed economici. Come ad esempio il programma tedesco Humanisierung der Arbeit, il Reinventing Governement di Clinton e Gore, la democrazia industriale scandinava, la diffusione della lean promossa dal Juse in Giappone, e in Italia il “patto per il lavoro” dell’Emilia Romagna.
- Promuovere, studiare e diffondere le esperienze eccellenti di progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione, lavoro (joint design of sociotechnichal systems) ) come quelle di Bosch, Bayer, SKF, Illy, Bonfiglioli, Ima, Dallara, Cucinelli, Loccioni , Vetrya e molte altre.
- Sviluppare modelli di impresa integrale, ad es la Olivetti di Adriano
- Appoggiare e finanziare forme di istruzione e formazione di base e quelle che sviluppano insieme new jobs e new skills, come alcune Corporate Academy, i migliori ITS e qualche esperienza di lauree professionalizzanti.
- Promuovere partecipazione progettuale di persone e stakeholder