Ivrea è stata nominata patrimonio dell’Unesco. Il modello di impresa della Olivetti è ancora un patrimonio per la cultura industriale di tutto il mondo e sopratutto per le imprese italiane dell’Italian Way of Doing Industry. La quarta rivoluzione industriale offre ad esse l’opportunità di correre partendo da una piattaforma potente e ancora attualissima.
C’è stato un peculiare modello imprenditoriale e di organizzazione della Olivetti. Esso era stato generato dalla storia di due imprenditori straordinari e soprattutto da Adriano Olivetti, una figura gigantesca che “sporge” rispetto alla sua stessa impresa ma che non era un visionario umanista che faceva per caso l’industriale, come talvolta lo si vuole rappresentare. Fino alla morte di Adriano, chi parlava di Olivetti parlava soprattutto di Adriano Olivetti e la sua azienda sembrava il prodotto irripetibile di un grande visionario. Fra il 1961, data della morte di Adriano, e il 1972, emergono anche l’originalità e la forza intrinseca del modello di impresa che egli aveva sviluppato insieme ai dirigenti e agli intellettuali di cui si era circondato. Modello che, malgrado le successive alterazioni di ogni tipo avvenute dal 1972 in poi e che portarono al declino della società, conteneva un DNA visibile e fecondo, un modello ancora vivo e replicabile.
Quale era questo modello? Esso, nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea.
A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto, c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle officine meccaniche internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat a soli 40 chilometri di distanza). Poi, c’erano i laboratori di Ricerca e Sviluppo che studiavano prodotti geniali che avevano oltre il 60% di quota di mercato mondiale, come la Tetractys. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e di stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, dove era stato inventato il controllo di gestione. C’era una Direzione del Personale modernissima. E poi gli uffici del design, del marketing, dell’architettura industriale e molto altro. In una parola un investimento in “indiretti” superiore a quello di tutte le altre aziende, ossia un corpo di “intellettuali della produzione” che era stata una delle principali leve che aveva consentito all’azienda di passare da 5.000 a 35.000 dipendenti. Sempre sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo, una struttura commerciale modernissima con un cuore nascosto che batteva a Villa Natalia a Firenze dove aveva sede la scuola commerciale, in cui tutti i dirigenti e i quadri imparavano i prodotti e le problematiche di vendite.
A destra di via Jervis, vi era non un altro mondo integrato al precedente: i servizi sociali, l’infermeria e i servizi sanitari, la grande biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che connettevano fra loro persone, territorio e impresa e che rendevano visibile l’“anima” dell’impresa (la stessa che era presente anche nelle officine del lato sinistro della strada). Non era una struttura compassionevole di welfare aziendale ma un completamento integrato a tanta razionalità produttiva. Erano il lato tecnico e un lato culturale della medesima forza di quella straordinaria azienda.
I due marciapiedi di via Jervis erano l’espressione visibile di un unico modello di impresa, di organizzazione e digestione del personale. Forte responsabilità sui processi; ruoli “a geometria variabile” e centrati sui risultati; verifica continua della leadership sui risultati; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza di capacità intellettuali; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il gemba, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro.
La parte centrale di quel modello di impresa era la grande cura per le persone: reclutate per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azienda si intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio workplace within, ossia il mondo di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio di ciascuna persona.
L’attrattiva di Ivrea per i giovani era altissima. La città, per chi veniva da Roma, Napoli o Milano, era veramente poverissima, a parte la gastronomia e la campagna. Tuttavia, abbondavano le 3 T di Florida: talento (Olivetti assumeva 1 persona su 100 scrutinate sulla base della loro creatività e curiosità più che su ristrette competenze tecniche); tecnologia (da Cappellaro a Tchou, dalla Tetractys all’Elea era un ribollire di tecnologie di tutti i tipi); tolleranza (al momento dell’assunzione non si faceva distinzione fra meridionali e settentrionali, tra uomini e donne, non si chiedeva per quale partito si votava né quali erano le preferenze sessuali, ma si scartavano solo le personalità autoritarie e senza un loro sogno; alle serate culturali si incontravano Moravia, Pasolini e altri “scandalosi” intellettuali del tempo).
C’erano tante persone notevoli, molte impegnate a dare il massimo di responsabilità. Vi erano giovani nominati dirigenti a 29 anni, alcuni erano in panchina: ma tutte le persone erano pronte a cambiare progetti, sedi, lavoro. Tutte erano in un rapporto incessante, una conversazione senza limiti fra loro e con i dati e i fatti dell’impresa, del territorio, del nostro paese e del mondo in cui la Olivetti era proiettata: si discuteva e si imparava su tutto, ma al momento di fare vi era una grande disciplina, oggi diremmo un forte senso della execution.
Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa mai burocratica, ma anche con un’anima condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità sociale, da un network esteso e vivissimo.
Soprattutto, la Olivetti era una impresa con una straordinaria capacità di imparare e di essere pronta a cambiare e a innovare anche nelle situazioni più estreme. Quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/10 o perfino a 1/100 del costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna della Olivetti, quest’ultima a cui veniva a mancare il terreno della propria tecnologia proprietaria, vide attivarsi lo scrigno di competenze e di progettualità che aveva coltivato. Dirigenti, tecnici che operarono in gruppi di lavoro eccezionali, furono capaci di ripensare radicalmente i prodotti, la Ricerca e Sviluppo, la produzione, la struttura commerciale in soli tre anni, in uno dei più leggendari processi di change management dell’industria italiana. Furono gli anni in cui fu progettata la Programma 101 (il primo personal computer del mondo). In quei tre anni furono sviluppate le isole di produzione che mandarono in pensione quelle lunghe catene di montaggio con fasi di un minuto, con un processo di progettazione partecipata a cui ebbi la fortuna di partecipare come responsabile del Centro di Studi Organizzativi, ossia l’Internal Consulting che io avevo ereditato da Luciano Gallino. La più grande Olimpia tedesca fallì, la Olivetti si rilanciò nella elettronica individuale, malgrado fosse stata mutilata della grande elettronica dell’Elea per ragioni geopolitiche. Forse avrebbe potuto diventare la Dell: ma questa è una storia che racconterò un’altra volta.
La quarta rivoluzione industriale che è già in corso in Italia e in tutti i paesi avanzati si baserà su tre pilastri: non solo le tecnologie digitali che renderanno possibile automatizzare un gran numero di attività, disintermediare e accedere ai big data e soprattutto abilitare le organizzazioni e il lavoro, ma anche i modelli innovativi di impresa e di organizzazione che coniugheranno efficienza e flessibilità, globale e locale, e le forme di lavoro qualificato e decente che aumenteranno il valore contenuto in ogni unità di lavoro e distribuiranno quanto più possibile uniformemente la produzione di valore.
La quarta rivoluzione industriale così concepita è la più grande opportunità di sviluppo della Italian Way of Doing Industry, che De Michelis ed io abbiamo identificato qualche anno fa (L’Italia che compete, Franco Angeli). Esso è centrato principalmente sulla simbiosi con il mercato, l’internazionalizzazione, l’alto livello tecnologico, la cura delle risorse umane, la governance condivisa. Queste imprese eccellenti sono portatrici di un modello di valenza internazionale ma ancora poco noto: esse sono ancora poche e le loro esperienze non si trasferiscono alla grande massa di Piccole e Medie imprese di cui è fatto in prevalenza il tessuto industriale italiano. Anche nel recente ottimo programma Industria 4.0 è mancata una azione di diffusione e accompagnamento allo sviluppo imprenditoriale e organizzativo delle PMI.
L’ulteriore sviluppo dell’Italian Way of Doing Industry nella quarta rivoluzione industriale renderà possibile che le tecnologie digitali e le nuove forme di organizzazione reticolari e a responsabilità distribuita abbiano bisogno di (e possano generare) una valorizzazione estesa del lavoro, una professionalizzazione di tutti sia negli ambienti ad alta tecnologia sia in altri, professionalizzazione che costituisce la principale arma contro la disoccupazione e la sotto occupazione. Nuove tecnologie e nuovi modelli di organizzazione e di ruoli, mestieri, professioni, competenze offriranno la base strutturale per il principale investimento da tutti ritenuto necessario: un nuovo modo di formare e di apprendere competenze hard e soft, ma che può svilupparsi potentemente solo su un solido modello di organizzazione e di lavoro. Come avvenne nel caso Olivetti.
La lezione della Olivetti degli anni ‘60 e ‘70 torna quindi ad essere rilevante: e il riconoscimento Unesco offre una importante opportunità di diffusione e di supporto alle imprese.
Federico Butera – Professore Emerito di Scienze dell’Organizzazione, Università di Milano Bicocca e Roma Sapienza, Presidente Fondazione Irso.