L’”impresa integrale” Olivetti come modello per le imprese italiane

La “fabbrica dei mattoni rossi” della Olivetti ha più di 100 anni. Un simbolo di eccezionale archeologia industriale ma al tempo stesso l’origine della costruzione di una impresa straordinaria, la cui storia ha ancora molto da insegnare alle imprese italiane. E’ esistito un “modello Olivetti” o la sua storia è solo il risultato della irripetibile personalità di un grande imprenditore? L’”impresa integrale” può essere ancora un modello per le imprese italiane eccellenti che operano in un contesto competitivo internazionale.

 

 

 

 

 

La Olivetti degli anni d’oro continua ad esercitare un fascino ininterrotto per gli imprenditori e gli studiosi del terzo millennio. Vi sono tre periodi ben distinti della storia Olivetti.

La prima è la fase dei fondatori, in cui Camillo e Adriano illuminano la scena della costruzione di una delle aziende più moderne del paese con la loro fortissima personalità: in questa fase, la storia più visibile e sorprendente è più quella dell’ing. Camillo e dell’ing. Adriano come imprenditori illuminati piuttosto che quella dell’azienda. È ciò che succede tutt’oggi con Ferrero, con Del Vecchio, con Bombassei, con Alessandri, con Zambon: il leader fa tanta luce da far impallidire la struttura dell’impresa.

La seconda fase, che io ho avuto la fortuna di vivere direttamente, è quella che va dalla scomparsa di Adriano al 1972. Lì credo vada cercato il pattern dell’azienda Olivetti, distinta dai suoi leader e fondatori, lì va cercato un modello da riproporre non ad irripetibili Adriano Olivetti, ma a ripetibili validi imprenditori, dirigenti, professional di cui è largamente popolata l’economia italiana.

La terza fase parte dalla “normalizzazione” della Olivetti sul modello di una ordinata multinazionale creata da Beltrami e Bellisario fino alla presa del controllo da parte di Carlo De Benedetti. In questa fase gli asset tecnici, economici, manageriali vengono montati e smontati come un lego, con momenti di successo e con un finale insuccesso.

Queste tre fasi, tuttavia, conservano un DNA comune. Io credo fermamente che ci sia stato un modello Olivetti che rappresenta una eredità fondamentale per una emergente generazione di imprese dell’”Italian Way of Doing Industry” (Butera e De Michelis, 2010) protese in operazioni aperte alla competizione internazionale.

Quale era questo modello? Esso, nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea.

A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto, c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle officine meccaniche internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat a soli 40 chilometri di distanza). Poi, c’erano i laboratori di Ricerca e Sviluppo che studiavano prodotti geniali che avevano oltre il 50% di quota di mercato mondiale, come la Tetractys. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, assai efficienti per quel tempo. Sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo, con un cuore nascosto nella campagna toscana che batteva a Villa Natalia dove aveva sede la scuola commerciale.

A destra di via Jervis, vi era non una alternativa ma un complemento integrato a tanta razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che davano “anima” all’impresa.

I due marciapiedi di via Jervis davano luogo ad un unico modello di impresa. Forte responsabilità sui risultati; ruoli “a geometria variabile e centrati sui risultati; verifica continua della leadership; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza intellettuale; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il “gemba”, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro.

Soprattutto si osservava una grande cura delle persone: reclutate per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azienda si intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio “workplace within”, ossia quel mondo interno di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio delle persone.

L’attrattività di Ivrea per i giovani era altissima. La città, per chi veniva da Roma, Napoli o Milano, era veramente poverissima, a parte la gastronomia e la campagna. Tuttavia, abbondavano le 3 T di Florida: talento (Olivetti assumeva 1 persona su 100 scrutinate e sulla base della loro creatività e curiosità, non su ristrette competenze tecniche); tecnologia (da Cappellaro a Chiu, dalla Tetractys all’Elea era un ribollire di tecnologie di tutti i tipi); tolleranza (al momento dell’assunzione non si chiedeva per quale partito si votava, ma si scartavano solo le personalità autoritarie, senza verificare le etichette; alle serate culturali si incontravano Moravia, Pasolini e altri “scandalosi” intellettuali del tempo).

Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa, ma anche con un’anima condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità sociale, da un network vivissimo. Come abbiamo visto, quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/100 del costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna dell’Olivetti, quest’ultima fu capace di riorganizzarsi radicalmente e di sopravvivere.

Allora, come potremmo rappresentare il “modello Olivetti” per una sua eventuale riproducibilità per le imprese italiane? Io lo chiamo il modello dell’“impresa integrale” o dell’“impresa eccellente socialmente capace” (Butera, 2004). Essa è una impresa che persegue in modo integrato elevate performance economiche e sociali e che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale.

Questo concetto consente di andare oltre l’idea della impresa responsabile, di quella basata sulla “responsabilità sociale dell’impresa”, che è stato tacciato da molti come un concetto affetto da connotazioni moralistiche e idealistiche che induce a ritenere l’impresa un soggetto dotato di “sentimenti” e “obblighi morali”. Il profilo dell’impresa di cui parliamo non è nemmeno quello (assai studiato) dell’“impresa illuminata”.

Parliamo invece di una impresa “normale” che può possedere o meno aggettivi qualificativi ma che semplicemente sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una strategia e azioni concrete. Essa si consegue non adottando un modello, ma attraverso un processo per definire valori, strategie, per “render conto”, per realizzare le proprie intenzioni. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e per tutti.

L’impresa integrale è il risultato di quell’efficace duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori cittadini di una società della conoscenza.

Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le qualità morali individuali o le caratteristiche valoriali e carismatiche dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre fondamentali), ma le reali pratiche operative e di management dell’impresa che coniugano le prestazioni economiche con quelle sociali. Un leader senza un corpo sociale con cui realizzare le cose non costruisce una “impresa integrale”, una impresa “built to last”, ossia costruita per durare (secondo l’espressione di Colin e Porras), ma al massimo una avventura imprenditoriale.

L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave. Essa:

  1. Fonda la sua identità nello sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi utili per i clienti e le comunità.
  2. Elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dal processo di concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: valori come l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la valorizzazione delle competenze. Essi rimandano alla utilizzazione e alla valorizzazione del “capitale sociale” e del “capitale intellettuale” dell’impresa.
  3. La sua missione primaria è quella di produrre benessere per tutti gli stakeholder. L’impresa integrale ovviamente genera ricchezza per sé e per i proprietari, ma attrae investimenti di investitori, fornitori e clienti e fertilizza comunità locali e sistemi globali.
  4. Ha definito i propri valori dichiarando impegni e assumendosi spontaneamente responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la clientela, i membri dell’organizzazione e infine misurando la realizzazione di questi impegni. Non come una “aggiunta moralistica”, ma poiché ciò è in sintonia con le proprie strategie.
  5. E’ capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne, rafforzando la propria competitività anche in ragione del miglioramento del contesto istituzionale e sociale.
  6. Una impresa integrale produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. “Product of work is people”. La Olivetti, per esempio, è le persone che ha disseminato nell’economia italiana e internazionale.
  7. Il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono trasparenti e corrette.
  8. Dispone di una vasta serie di indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della vita di lavoro, etc.).
  9. Nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi svolgono funzioni economico-sociali di straordinaria importanza, soggetti a cui l’impresa dà visibilità e importanza: l’imprenditore che fa fare nuove cose o fa fare cose che si stanno già facendo in modo nuovo (innovazione); gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa invece di parcheggiarle nei Titoli di Stato; i dirigenti che portano ad unità elementi dispersi e promuovono il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che creano prodotti e servizi e ricchezza; i clienti sono parte ineliminabile dell’impresa. E così via.

Alcuni di questi tratti strutturali sono stati in gran parte la ragione del successo della Olivetti fino al 1975 ma anche dei distretti industriali di piccole e medie imprese leader nel loro settore. Sono tratti riproducibili in un grandissimo numero di imprese vere e normali, la stragrande maggioranza delle quali non ha imprenditori carismatici e socialmente impegnati, ma imprenditori che costruiscono e guidano imprese integrali. Vi sono molte più imprese integrali in Italia di quanto si pensi.

Condividi
I commenti sono chiusi.